C’è un’alternativa open source a tutto (o quasi), ma spesso aziende e professionisti sono vincolati ai servizi privati per facilità d’uso, interoperabilità tra programmi e quantità di persone che abitano quei domini. I software privati possono costare parecchio e non essere alla portata di tutti: esiste un modo per rendere la tecnologia più accessibile?
In un mondo ideale, i sogni che Richard Stallman e la Free Software Foundation facevano ormai quarant’anni fa sarebbero una realtà quotidiana: la rete è libera, il software è condiviso, partecipato e implementato da programmatori volontari e appassionati.
Agli albori di internet il codice aperto era l’unico modo per condividere le poche preziose informazioni disponibili. Col passare del tempo, è diventato rapidamente chiaro che si sarebbero scontrati due fronti ideologici: chi sosteneva che il software di qualità dovesse essere a pagamento e chi faceva in modo che le informazioni circolassero liberamente e ognuno potesse contribuire.
Oggi è chiaro che i servizi a pagamento hanno vinto e possiedono il monopolio degli ambienti digitali. Uscire da un sistema privato è un compito sconveniente per l’utente, specialmente in contesti lavorativi. Tuttavia, possiamo imparare qualcosa dall’open source e chiederci se esiste un modo per rendere la tecnologia più accessibile a tutti.
Gratis non vuol dire free
Se oggi usiamo il termine “open” per descrivere i software a codice aperto non è un caso. Nella visione dei pionieri del web si utilizzava il termine free, che però scoraggia gli investitori per via del suo retrogusto di gratuità.
In realtà con il termine “free” si intende definire il software come libero, di pubblico dominio, modificabile e migliorabile da chiunque. L’evoluzione economicamente sostenibile di questo modello è stato l’open source, in cui il codice ha sì una licenza, ma che consente la modifica e la visualizzazione a tutti.
Dobbiamo però fare un’importante distinzione. Se usiamo un servizio web di modifica delle immagini gratuito, non è detto che si tratti di un servizio open source. Anzi, è molto probabile che a noi non costi nulla in termini economici, ma che la nostra attività arricchisca dati comportamentali che l’azienda vende volentieri. È uno scambio lecito, quando informato, ma non possiamo definirlo open, tantomeno free.
I vantaggi del codice aperto sono diversi: chiunque può suggerire migliorie, trovare bug e risolverli (acquistando reputazione come programmatore), modificare il programma in base ai propri bisogni e per crearne di nuovi, diversi e più efficaci.
D’altro canto, i motivi per cui gli utenti rimangono fedeli ai servizi a pagamento sono diversi e, spesso, validi.
Lock-in
Immaginiamo di dover comprare un computer Apple per la prima volta: potremo usare i software che abbiamo pagato sul nuovo sistema operativo? Forse dovremo spendere qualche centinaia di euro per dei nuovi programmi.
E ancora: magari abbiamo attivato il cloud del nostro account Microsoft, ma su Apple dobbiamo creare un account nuovo e il passaggio non è automatico in nessuno dei due sensi.
Chiunque sia rimasto fedele a iPhone o Android al grido di “come faccio a cambiare? Ho tutto qui” sa esattamente di cosa stiamo parlando: è il lock-in tecnologico, ovvero la crescente difficoltà di abbandonare un ambiente proprietario per passare ad un altro a causa del grande dispendio di tempo ed energie mentali che questo richiede.
Se poi i colleghi, i fornitori esterni, i freelance che lavorano con l’azienda adoperano tutti gli stessi programmi, diventa quasi impossibile farne a meno. Si tratta di servizi spesso costosi, ma non tutte le aziende sono mirate al profitto e trarrebbero grandi benefici dal basso costo per risultati raggiunti che i servizi digitali mettono a disposizione.
Una via di mezzo
Se c’è qualcosa che possiamo imparare dalla filosofia open source è che la condivisione dei programmi genera maggiore traffico, consapevolezza e ricchezza per gli attori coinvolti.
Pur mantenendo la proprietà esclusiva del codice, molte aziende potrebbero imparare da questa lezione, offrendo modelli di business alternativo per chi non ha disponibilità di comprare interi pacchetti di software.
Allo stesso modo, molto hardware viene buttato via o accantonato ogni anno perché obsoleto, ma potrebbe essere utile a chi deve svolgere attività meno onerose per il computer, come le semplici operazioni d’ufficio.
Nella corsa a creare ambienti sempre più ampi ed integrati, in cui gli utenti si muovono senza cambiare mai proprietario dei servizi, sarebbe utile ricordarsi della miriade di persone per cui la tecnologia rappresenta uno strumento indispensabile di lavoro e generazione di ricchezza per la comunità.
In questo senso, una tecnologia scalabile e dai costi contenuti diventa indispensabile per l’innovazione economica e digitale di un paese. Anche a costo di vedere qualche utente saltare di fiore in fiore, senza preferire per forza il proprio servizio web a quello dei concorrenti.
Dall’open source possiamo imparare tutti, anche chi ha cambiato per sempre la nostra fruizione digitale.